Certe volte capisco che il mio tono migliore per parlare di queste cose è quello della leggerezza. Se ci ripenso, credo proprio di essere nato ai miei esercizi di poesia per le vie dell’allegrezza. E sì che mi son capitati, forse, più malanni che contenti. Ma sarà per quell’accoglienza che gli faccio, quando il dolore capita, che per modo di dire chiamerò riflessiva, ma riflessiva non è – come sa chi mi conosce – perché per me non consiste che nell’adottare un comportamento, che in questo caso è la pazienza: la pazienza, poi, si fa compagnia col tempo che passa: sarà per questo, dico, che in tale passaggio anche i malanni, le pene, quand’hanno visto che la pazienza va d’accordo col tempo, cominciano a mutare viso.
Per cui mi torna spesso alla mente la frase che scrisse San Paolo ai Corinti, dopo aver recitato le sue infinite tribolazioni: «Se c’è da vantarsi, io vanterò gli atti della mia debolezza». Che stupenda parola! Anzi, proprio, che parola della poesia. Perché i poeti non sono mica degli spiriti forti. Spiriti forti sono quelli che discutono, oggi, l’inconciliabilità delle due culture, umanistica e scientifica, e che essendo sicuri e bastanti a se stessi, non hanno da compiere atti d’adorazione, e quindi son sempre lì, intorno al bindolo a tirar su l’acqua dal pozzo della loro sapienza, che poi, corri corri, finisce per tornare nel pozzo.
Il mio spirito, invece, è certo che non basta a se stesso. Lo vedevo e lo capivo persino in queste faccende della poesia. E fin da quando, – ero giovane – usavo molto la rima. La usavo sospinto da vaghezza di canto, ma poi capitava un furore in cui, il più spesso, la rima scopriva l’aspetto insospettato della sua natura: che era tale da rendere felice il mio spirito assetato di soccorso. Sì, perché la rima, come sa chi l’ha usata ispiratamente non nasce di certo stillandosi il cervello. Nasce remota, oltre ciò che capirebbe il discorso del poeta, a scioglierne il sangue che tanto spesso coagula: la rima è soprattutto un avamposto della poesia.
(da Diario della poesia e della rima)
***
Io un’alba guardai il cielo e vidi
uno spazioso aere sulla terra perduta;
negletta cosa stava tra i suoi lidi,
tra gli spenti smeraldi oscura e muta.
Innumerevoli angioli neri vidi
volanti insieme ad una plaga sconosciuta
recando seco trasparenti e vivi
diamanti d’ombra eternamente muta.
Andava questo furioso stuolo
estenuandosi verso il fil d’occidente
e lo seguia un intenerito volo
di cerulee colombe alte e lente.
E apparvero, con le puntute ali
di bianco fuoco vivo drizzate e ardenti
gli angeli dalle vallate orientali,
le estreme piume rosee e languenti.
In un immenso lago alto e candido
nascean singolari fronde meravigliose,
le rovesce vallate un lume madido
di rugiade correa, fonde e muschiose.
E dentro i nostri cuori era come
dentro valli ripiene di nebbie e di sonno
un lento ascendere dello splendore
che poscia illuminò i monti del mondo.
(da Realtà vince il sogno)
***
Un giovane bruno e uno biondo
abbracciati se ne van danzando
fuor di questo corporal mondo
con un passo soave e blando.
Son essi i miei sogni, essi
i miei veri sogni notturni
che invano inseguo, desti
gli occhi già in sonno taciturni.
E nulla sapendo di queste
creature fuggitive e solenni
ne vedo la turbinosa veste
appena, e gli ombrati capelli.
Pur tanta è la lor potenza
che di essa mi si nutre il cuore
e attende (con mesta pazienza)
a ricordarli per lunghe ore.
Vanno instancabili per vie
stellate, o piene di rotti nuvoli?
son essi insieme, o malinconie
profonde in se stessi gl’isolano?
Io ignoro tutto; ché l’alba
me li rivela uniti insieme
danzanti, e non vuole che sappia
niente del loro profondo seme;
e lascia soltanto ch’io pianga
o rida lunghe giornate
camminando per la mia landa
tra l’altre cose rivelate:
come un oriente che beato
eppur mesto illumina un cielo,
tinge di se stesso il creato
d’un allegro, d’un triste velo.
(da Realtà vince il sogno)
***
Eccoli, dolci bruni di sole
i musicanti di cortile,
con le chitarre, con le viole
fan tutta l’aria risentire.
Questo avveniva nel tempo piano,
bianco, nel mite calor meridiano.
Gemmati, e roridi di colore
i giocolieri di cortile:
di questi salti si vive e muore
chi ci vuol bene sia gentile.
Questo avveniva alla luna calante,
piena l’estate, la spiga fragrante.
Semplici, candidi, fuggitivi,
sui prati morbidi di brine,
danzano, volano giulivi
bambini in bianche mussoline.
Questo avveniva, fiorente aprile
querule l’acque eran, l’erba sottile.
(da Realtà vince il sogno)
***
Sei vetri della finestra
nell’angolo della stanza
sono la strada maestra
d’ogni nuvola che avanza.
Io, dal mio angolo pigro
tendo insidiosi agguati,
dai poveri tetti emigro
verso quei correnti prati.
Non sono prati, son lenti
sogni; sogni non è vero,
sono fuggitivi armenti:
e nemmen questo è più vero.
Vedi quell’azzurro. Cielo
è il cielo, bambino mio;
con la nuvola, nel cielo,
va la volontà d’Iddio.
Fumo che te ne vai solo,
spensierato, liberamente,
dal focolare del duolo
al cielo: prendimi la mente.
Sei vetri della finestra
nell’angolo della stanza
sono la strada maestra
della celeste abbondanza.
(da Realtà vince il sogno)
***
Se saran queste strade di sole
che un giorno (quando avremo ali)
ci porteran lontani;
e non più mireremo dai cari
colli le case gioviali
che c’invitano ai piani:
appena un persuasivo candore
vedremo, delle montagne,
come le vene d’erba,
e il mare, dentro nullo colore,
come un vano occhio che piagne,
come una gemma acerba.
In un aere senza il dolce azzurro
dove il sole è l’etern’onda
andremo via giulivi;
con stupend’ali senza sussurro
verso una riva gioconda,
profondamente vivi.
(da Realtà vince il sogno)
***
Tu hai nel petto un garbuglio di cose che ronzano come un’arnia d’api al lavoro. S’apre uno spiraglio nell’arnia; il capo del verso, come un’ape d’oro, appare, sull’orlo, fremente, sta per spiccare il volo, e sdipanare il garbuglio dello sciame. E a un tratto, in quel deserto, appare un fiore giallo, a sinistra, lontano, poi un altro, ma sembra vicino, ed è rosso, sulla destra. Sono apparizioni che sorprendono il poeta: e che fantasticamente si replicano. Altro rosso, altro giallo, e un violento azzurro punteggiano il deserto: e son parole che contengono un nesso segreto, quasi mostruoso, con quello che vuole il poeta, il suo discorso che ronza, lo sciame che vola. Quello che era intenzione della natura del discorso si eleva ad altra potenza correndo a investire questi suggerimenti di colori ritmati che moltiplicano secondo il bisogno le loro apparizioni, le loro corrispondenze. E il discorso che era tutto dentro l’arnia sta ormai sciamando a precipizio con l’ardente sua fame verso i richiami dei fiori che sbramano la sua passione di impossessarsi di una ragione sconosciuta.
Ogni fiore era una rima, ed ora capisco che ognuno di essi conteneva un potenziale che il poeta non inventava da sé, ma che rispondeva, come predisposto, alla supplica ardente di quella fame compressa. Chi ha assistito a questa vicenda di parole che s’appostano lontano a creare la danza ancora insospettabile della poesia rimata, sa benissimo che da solo non ce l’avrebbe fatta. Una grande carità è scesa verso la fame d’esprimersi che lo divorava.
(da Diario della poesia e della rima)
***
Quando su noi la povertà distende
la mano scarna, e coi dolori inquieti
il quotidiano, piccolo bisogno,
se anche mi sento qual t’avessi in sogno,
o Iddio, pregato, sull’alba che splende,
entra e soccorri a’ miei mali segreti.
Quella che io amo, allora, e il mio figliuolo,
stan muti in casa, mi seguon con gli occhi;
se sembro lieto, ed essi non mi credono,
se rido e canto, il canto non ha suono;
se vo per casa, anche i vecchi balocchi
presi e lasciati, mi lasciano solo.
Ma tu che all’alba, o Padre del creato,
mi hai detto: – Figlio, avviati al lavoro –
Tu in cui confido pieno di speranza,
con passo cauto di stanza in istanza
sempre mi segui e se non altro a un duolo
sciogli, più grande, il mai che mi ha legato.
Pianger mi sento e in quel sentir più sale
l’anima al pianto mista co’ miei errori:
che se i miei mali numero, rinumero
insieme le mie colpe, e per ognuno
d’essi e sorge una, una m’assale,
tante che dolgo come tanti cuori.
E forse l’albe infantili mie volgono
verso quest’alba più grande e severa
d’un’altra gioventù, non piena d’angeli,
umana, e sacra ai dolori di tanti
che come me, sulla terra, hanno sera
prima che cali il giorno, o come vogliono
i Tuoi decreti, Provvidenza vera.
(da Altre poesie)
***
Mi balzò l’anima
quando vidi i tuoi tetti
diseguali
dopo che il treno una notte
lenta d’avvicinamento
mi lasciò su una piazza desolata.
Due nottambuli parlavano,
eri sola, o Firenze,
e salii nella stanza d’albergo,
dormii nelle tue braccia,
nel tempo, nell’oasi di pietra,
di calce e travature cedevoli,
sotto le stelle supreme,
vivido di battesimi:
e nel mattino
nebbioso dell’inverno
fiorentino, secco di ricordi,
destandomi,
una frattura
solitaria divampò
dalla mia mestizia.
Lasciai l’arte per l’anima,
e al crollo silenzioso
del vivere invisibile
ancora una volta
un toscano senza pianto
s’inoltrò sulla soglia dell’Ade.
(da Tetti toscani)
***
Tetti toscani secchi
fulvi di vecchi
tegoli, in cui al tempo che oblia
scotta sempre più mia
l’arsura forte
d’estati morte;
sui colmignoli smagra
il di più, flagra
l’incanto celeste, sdoppia
il miraggio che alloppia,
e seccan vivi
i sogni estivi.
Non so che solitaria
vita per l’aria
vagoli, che par vada e ritorni
da campestri soggiorni;
mi punge il pruno
del suo profumo.
Ma i tetti non han vizi,
a’ bei solstizi
d’estate; e l’anima viaggia,
che dai tetti s’irraggia,
pei cieli asciutti,
chiari per tutti.
(da Tetti toscani)
***
Un dolce pomeriggio d’inverno, dolce
perché la luce non era piú che una cosa
immutabile, non alba né tramonto,
i miei pensieri svanirono come molte
farfalle, nei giardini pieni di rose
che vivono di là, fuori del mondo.
Come povere farfalle, come quelle
semplici di primavera che sugli orti
volano innumerevoli gialle e bianche,
ecco se ne andavan via leggiere e belle,
ecco inseguivano i miei occhi assorti,
sempre piú in alto volavano mai stanche.
Tutte le forme diventavan farfalle
intanto, non c’era piú una cosa ferma
intorno a me, una tremolante luce
d’un altro mondo invadeva quella valle
dove io fuggivo, e con la sua voce eterna
cantava l’angelo che a Te mi conduce.
(da Altre poesie)
***
I fior d’oscurità, densi, che odorano
dove tu sei, s’aggirano nell’ombra,
un’altra luce sento che m’inonda
queste pupille che l’ombra violano.
Quale tu sei, non so; forse t’adorano
le cose antiche in me, tutto circonda
te in un giardino dove i sensi all’ombra
tornano ad uno ad uno che ti sfiorano.
L’esser più soli, e l’aggirarsi dove
tu non sei più, od in remota stanza
dentro al mio petto, quando lento piove
l’amor di te che oltre di te s’avanza,
forse sarà per questo il dir d’amore
più dolce dell’amore che ci stanca.
(da Altre poesie)
***
Oggi, qualche volta congetturando come mi capita di rado, e spesso dividendo il mio cuore fra i due grandi canoni che possono servire di base alla costruzione della poesia, poesia soggettiva, poesia oggettiva, mi par di capire che la rima è stata il primo grandissimo mezzo per connaturare alla poesia il dono d’una sublime oggettività. La rima è in questo senso tutt’altro che abbandono alla musicalità: è figura dell’oggettività che riflette le grandi e superbamente ordinate costruzioni metafisiche dell’intelletto d’amore. Simula, e riecheggia, nelle sue, le corrispondenze che regolano le grandi forze dell’universo, ed inquadra in esse il discorso fluente e corrusco della vita. […]
Si capisce, e va da sé, che la mia leggerezza non vuole tuttavia dare peso, per i casi miei, a queste vicende che mi capitavano, parallele a tant’altre, come quando, da giovane, la poesia passava come un’allodola per il mio cielo, e la mia crudeltà giovanile le sparava: e mi avveniva, per caso, di non fare cilecca: ma poi era un povero, uno stento pennuto, che raccoglievo. Ebbene, voglio dire che da quei casi pullulanti di parole quasi incomprese nell’atto che le conoscevo, deboli e forti d’amore e di peccati, ho appreso a considerare appunto le parole come un universo di persone straordinariamente libere, e capaci di tutti i tiri.
(da Diario della poesia e della rima)
***
È un mare fermo, rosso,
un mare cotto, in un’increspatura
di tegole. È un mare di pensieri.
Arido mare. E mi basta vederlo
tra le persiane appena schiuse: e sento
che mi parla. Da una tegola all’altra,
come da bocca a bocca, l’acre
discorso fulmina il mio cuore.
Il suo muto discorso: quel suo esistere
anonimo. Quel provocarmi verso
la molteplice essenza del dolore:
dell’unico dolore:
immerso nel sopore,
unico anch’esso, del cielo. E vi posa
ora una luce come di colomba,
quieta, che vi si spiuma: ed ora l’ira
sterminata, la vampa che rimbalza
d’embrice in embrice. E sempre la stessa
risposta, da mille bocche d’ombra.
- Siamo - dicono al cielo i tetti -
la tua infima progenie. Copriamo
la custodita messe ai tuoi granai.
O come divino spazio su di noi
il tuo occhio, dal senso inafferrabile.
(da L’estate di San Martino)
***
Di questo parlar mio, che si frantuma,
so così poco come il terrazziere
sa della tazza ritrovata in cocci
entro il suo sterro: e qualche coccio ha un suo
quieto brillare, un poco spento
dalla terra, che ricorda altri giorni,
ed altre forme, anzi l’intera forma,
la genuina e perfetta,
sotto un sole che fu per un momento
al suo apogeo, e brillò sulle labbra
giovanili che bevvero, fresche
come prugne a settembre,
de’ suoi colori, alle soavi nebbie
che li velavano: labbra,
tazza e bevanda ancora vive in questi
pochi frammenti; e il resto è sogno.
(da Diarietto invecchiando)
***
Così, da più oscure latebre, si libera
un io sconosciuto, invecchiando, cui
non badammo da giovani, o che intravisto
tememmo, e parevaci il peggio di noi,
il più abbandonato e senza speranza;
eppure era lui, nella sua essenza precaria
era l’uomo, nella triste sua carne,
e mortale destino, e ivi dentro
il suo amore, melanconico e vorace,
e fatuo, indegno di risposta: e ora che il crudo
suo vero rivelasi, tu, anima, specchio
d’eterno, che cosa farai? Così s’interroga
il vecchio, dondolando la testa, mentre
soffre e dubita.
(da Un passo, un altro passo)
***
Meno che nulla son io, nella mente
che invecchia e vaga incerta, e male
afferra le idee che vi divagano
fantasticanti: eppure sono ancora
creatura, e non è detto che da me
così squallido, così passivo e inerte,
non emani, come ora che scrivo,
il senso eterno di quell’eterna
povertà che ci è propria, a noi che viviamo
nel tempo, sulla cui nera lavagna
scriviamo col gesso dei giorni parole
che sempre biancheggiano, per Lui che le legge,
pupilla d’aquila, solo compagno sapiente.
(da Poesie del Sabato)
***
Fraterno tetto; cruda città; clamore
e strazio quotidiano; o schiaffeggiante
vita, vita e tormento alla mia anziana
età: guardatemi! sono il più càduco,
tra voi; un rudere pieno di colpe sono...
ma un segno che qualcosa non tramonta
col mio tramonto: resiste la mia pazienza,
è come un orizzonte inconsumabile,
come un curvo pianeta è la mia anima.
(da Ultime)
***
Lo stravedere dei vecchi! Guardateli!
Ascoltatene uno, come son io, forse
il più debole! La mente che vacilla,
e l’azzurro che spera, mentre l’ombra
lenta, furtiva, risale i tetti:
alle mie spalle scompaiono ninnoli
e oggetti, caracollano via tavole
e sedie, s’involano alcove, trepide
masserizie amorose svaniscono
via leggere, la mia vita si spoglia,
tutta perduta vibra nell’azzurro.
(da Ultime)
***
Quando invecchiamo, fatti più sordi alla rima
ed a quel mitico batter dei ritmi
che amore interno dettava, una cosa
sola, un esister confuso coi freschi
pimenti degli anni giovanili;
allora un ciuffo di pini su un monte,
una gran macchia verde ci commuovono
col silenzio, e siamo come silenzio
che non si perde nel nulla, ma entra
in noi per farsi conoscere, come
vampa di lauro profuma la macchia
nell’alido, col suo sentore amaro:
sì, la vecchiaia è una nuova stagione,
e la morte una stagione più alta, od umile,
di foglia secca per quei tabernacoli della
requie del canto che non serve più.
(da Poesie del Sabato)
***
Rotonda terra; scena che si ripete,
in te, del saluto serale: consuetudine
mia planetaria, di tegola in tegola,
del mio vivere che se ne va col tuo
trapassare, lume diurno, lento,
sul tetto davanti casa; e mio formarsi,
intanto, un petto come di colomba;
e metter piume amorose per la notte
che viene; ravvolgermi unitario
con essa: pigolio interiore; perdita
dell’umano: divenire mio universale.
(da Poesie del Sabato)
***
La verità, oltre la lucida fibra
dei sensi, va verso la squallida,
l’infinitamente squallida plaga
dell’eterno. Ma ahi noi! che qui sostiamo
al sole del tempo, noi abitanti
dell’effimero, lungi dall’affascinante
tenebra dove tutti i misteri tralucono!
Palpitava di brezze il cielo al quale alludo
allorché mi si rivelò, e fu per un istante,
e i voli delle veridiche colombe
mi trascinavano senza respiro;
ed io gioivo del mio morir come foglia
al quieto transito d’un giorno d’autunno.
(da Poesie del Sabato)
***
Tant’è. La mia fede, che non è fede,
è condita di quel coraggio di roccia
che ne fa masso, veemente d’esistere
così com’è, e nell’inesausto mutarsi
certa di essere. Così la gran parte
di me, in bilico come il masso,
ragiona, se può dirsi ragione
quella sua carità, quel suo duro
consistere per sé e per l’ignoto, resistere,
non sapersi che cosa di un mondo
dove altra legge non sia più sicura che quella
della gravità, che tutte le contiene,
e che tutto trascina all’asilo
irrequieto del suo immobile stare.
(da Poesie del Sabato)
Désirable vie
des oiseaux! Eux,
qui réjouissent les ombreux
recoins du bois de leurs doigts d’or!
J’en vis un, passereau
solitaire et lent
remplumé par le vent
délirer pour une aumône;
et j’entendis le chant modulé
intact, que va perdre
entre le ciel profond et l’herbe
une vertigineuse alouette.
Dans la pieuse nuit se tiennent
les rossignols;
rester avec la lune, seuls,
en ramées que le vent malmène!
Et, où les ondes font
un tranquille lac
habite le vol vague
de certains, charme et illusion.
Brûle l’oiseau phénix
de brûler, et ressurgit
l’oiseau phénix ; et nourrit
en soi le cygne un mal qui le mine.
Vivre indéfini
des oiseaux! Ils sont
chantés dans cette ode, messagers
de la vie que nous vivrons:
quand nous remonterons
par des fleuves d’azur
et célestes murmures
vers le vouloir du ciel.
(da Realtà vince il sogno)
Ce n’est pas vrai qu’ils ont détruit
les maisons, pas vrai:
seul est vrai dans ce mur en ruines
l’avancement du ciel
à pleines mains, à pleine poitrine,
où inconnus rêvèrent,
ou bien, vivant, crurent rêver,
ceux qui ont disparu…
Maintenant c’est à l’ombre brisée
de jouer comme autrefois,
sur les murs, dans l’aube au soleil,
imiter les aléas…
et dans le vide, à l’hirondelle qui passe.
(da Notizie)
Mais c’est vrai pourtant qu’aux vieux,
dépouillés de la beauté,
reste ce signe, dans l’âme,
de son rapide apparaître
et disparaître, ce sillon de chose
qui a été, qui saigne encore,
lourde, dans la conscience;
mais qui, goutte à goutte, ensuite
va lentement s’enfonçant dans une presque,
dans une presque rancoeur
de blanche innocence…
(da Disperse)
Très ronde terre; scène qui se répète,
en toi, du salut vespéral: habitude mienne
planétaire, avec toi et tes couchants:
brusque sursaut, de tuile en tuile,
de ma vie qui s’en va avec ton
effacement, lumière diurne, lente,
sur le toit devant la maison; et mon apprêt,
cependant, d’un plastron comme de colombe;
et arborer d’amoureuses plumes pour la nuit
qui vient; m’envelopper dans l’union
avec elle: pépiement intérieur; perte
de l’humain : mon devenir universel.
(da Poesie del Sabato)
Nous un par un
comptons les jours
du blé d’azur
qui se tient droit:
dans l’enfantin
champ le murmure
sans un épi
craint: et s’en va
par le ciel vague
ment tintillant
pleine alouette
de son amour:
nous un par un
comptons les jours,
peines, et dur
espoir qui sait.
(da Poesie, Prime)