Carlo Betocchi: giudizi critici

Giorgio Caproni

[...] più che toscano, italiano all'antico modo romanico, sia per il cristiano realismo della stringatissima ispirazione, la quale pur tenendo l'occhio costantemente puntato al cielo non perde mai di vista la terra e le sue stagioni (gli uomini e le loro fatiche), sia per l'asciuttezza quasi frustante del linguaggio, qui più che mai vicino alla plasticità e all'incisività, così popolata di schietta gente nostra alla vigna o all'incudine di certi Mesi dell’anno che fregiano tante antiche cattedrali o chiesuole sparse da un capo all'altro d'Italia.

Mario Luzi

La poesia di Betocchi era stata per eccellenza una poesia del sensibile: tanto vale dire che la sua carità partiva dalle creature. Ora che il discorso è, fra sé e sé, un discorso con il Creatore quasi senza distrazioni all'esterno, il sensibile ritorna più che altro come metafora interna ed è proprio in quei punti che il «passo» mette le ali e accelera il commovimento bruciante della asciutta confessione, di per se stessa così alta, così fervida per ansia di verità. È da notare che tutto questo accade senza rotture e lacerazioni, in un linguaggio sostanzialmente continuo, incisivo, vivificato dalle risorse e ricchezze di idioma, non secco, aperto anzi a una sintassi geroglifica prima del suo finale svettante. [...] C'è un punto ideale nella storia di ogni poeta in cui la distinzione tra prosa e poesia sembra un limite o un arbitrio insostenibile: un punto in cui la lingua è una. Con misura e fermezza Betocchi si è collocato in quel punto non dovendo per questo discendere ma anzi salire.

Pier Paolo Pasolini

[...] il rapporto tra Betocchi e il lavoro, tra Betocchi e gli operai è un rapporto evangelico, e non si sarebbe lontani dal giusto: è un rapporto travolto e accecato dall'amore, e anche là dov’è pura simpatia, non è cioè ancora estasi, è tutto pieno e deformato da una sia pur virile tenerezza. [...] disegnare l'operazione poetica di Betocchi è fare il ritratto di una «grazia». [...] Questa gioia, tutta profana, coincide, ripetiamolo, con quella sacra che è in Betocchi l'ininterrotto sentimento del divino. E ogni suo rapimento sensuale e perfino, indirettamente, impuro trae significato e si sdoppia in un rapimento di forma mistica: il suo desiderio di umiliazione di fronte alle «cose» trova naturale e complementare equivalente nel desiderio di glorificarle. Dedotti dalla sua poesia, sia pure approssimativamente, questi dati, non sarà difficile indicare i momenti più alti di Betocchi in quelli in cui egli rappresenta la sua solitudine nel creato. È una solitudine, s’intende, gremita di oggetti e affetti [...].

Andrea Zanzotto

Betocchi resta sempre il poeta dei tetti, delle tegole, motivo che richiama tutta una città-paese coi suoi travagli e i suoi lavori; e insieme resta il poeta del cielo: così «vicino» ai tetti ma anche metafora di ogni diversità. Una creta scabra e faticata si libera e sfugge lungo linee di simmetria e risonanze che guidano a un azzurro dall'inesauribile vigore di verità, di sorpresa.

Luigi Baldacci

Betocchi non guarda dentro di sé, come ha fatto sempre Saba; Betocchi si conosce soltanto conoscendo il mondo esterno, che si ricrea e rinasce costantemente davanti ai suoi occhi perché il suo Dio è quello di una immanente e permanente creazione. Questo Dio è, per ricorrere a una metafora, il Dio di Teilhard de Chardin: e dico metafora solo perché non credo che Teilhard de Chardin abbia influito primariamente sulla sensibilità di Betocchi, ma è certo che al fondo di tutta la sua intuizione poetica c'è questo modo di sentire Dio come universo nascente. Anche per Betocchi la creazione non è finita: anzi egli si è fissato al momento della creazione. Con la sua poesia siamo sempre all’alba della genesi, e il momento storico dell’avvento del Cristo è oscuramente rimandato. Per questo la poesia di Betocchi non è, soprattutto nel suo primo tempo, poesia del dolore, ma dell’allegrezza, il che non significa affatto della felicità.

Carlo Bo

Direi che questi sono i due aspetti principali della sua musa naturale, la gioia e la disperazione, l’amore e la solitudine, la preghiera e la desolazione. Subito dopo aprì un nuovo registro, quello della vecchiaia, della meditazione sulla vita declinante e sulla morte che avanza. Forse il Betocchi più alto, certamente il più compatto, più asciutto e, dal punto di vista della resa poetica, il più essenziale. [...] tutta la storia dell'uomo e del poeta si fonde in un’unica vocazione [...]. In fondo anche quando Betocchi diffidava o addirittura affrontava il suo Dio non taceva mai questo soffio dello spirito creato, della vita che trova in se stessa la parola di salvezza. Il dolore gli aveva insegnato ad andare al di là dell'esclamazione di gioia e a gustare il frutto crudele della desolazione, la frusta della pena, intesa come presenza di Dio, del Dio eterno che rimettiamo dentro l'ordine del tempo.

Sauro Albisani

Si può avere letizia anche nel dolore. Questo sperimentava stupefatto il poeta. […] Al momento del divenir suo universale, il poeta, nella sua trasformatio, è il pellegrino che bussa alla porta dell’essere, là dove tutto (mentre attende il compimento) è già nell'uno, perché è nella libertà.
Esiste una tradizione di poeti, di cui non ho l'autorità di stabilire l'albero genealogico, che hanno registrato quasi come eventi sismici le tappe d’un mutamento che sarà un giorno, se destinato a compiersi, in un senso ben più integrale dell'odierno fenomeno della società multietnica, un fatto ecumenico. Betocchi appartiene a quella tradizione: in poesia egli impara e insegna a leggere incarnata nel Cristo quella virtù evolutiva che è in nuce nell’uomo, che l’uomo deve ancora in gran parte conoscere, manifestare a se stesso e, soprattutto, sperimentare. Solo allora il "figlio d’uomo", d’ogni latitudine e pelle, potrà divenire, cristianamente non niccianamente, l’oltre uomo, l’uomo glorificato, secondo Betocchi, dalla sofferenza.
In Gesù Betocchi amava e insegnava ad amare l’uomo venturo, affrancato finalmente dall’asservimento al suo piccolo io, che altro non ha saputo e non sa produrre se non egoismo, quell’egoismo che il poeta esortava ad abolire.
Arriviamo a dimenticare noi stessi quando comprendiamo che tutto è dono e che quanto di rinato dall'alto riusciamo a esprimere non è in noi, ma passa attraverso di noi.
Dimenticare se stessi era l’insegnamento, cui il maestro aggiungeva una nota importante: non con lo sforzo del sacrificio, ma con la gioia della liberazione.

Marco Marchi

Il Betocchi esordiente di Realtà vince il sogno era stato dunque un poeta integralmente giovane: un’armonia rimandava a Dio, a un creatore garante. Non erano belle le sue poesie, ma la natura che esse cantavano, da cui provenivano e a cui ritornavano, su quella ricorrente linea di confine fra tetti e cielo, visibile ed invisibile, i coppi rosseggianti della sua città e del suo lavoro di geometra in giro per cantieri e l’azzurro. «A me interessano altre cose. Aveste visto stamane la campagna...», disse una volta agli amici letterati e intellettuali del «Frontespizio».
Questa fiducia e questo incanto avrebbero poi siglato un lungo itinerario, facendo della vecchiaia, magnificamente, una dimensione ilare e penitenziale dell’obbedienza, un’età del sacrificio del tutto interpretabile e rassicurante. Solo alla fine fiducia e incanto si sarebbero incrinati, lasciando il posto al disinganno, all’incertezza e allo strazio.  Betocchi e la sua poesia avrebbero da ultimo dubitato della benevolenza del loro Dio creatore, della validità complessiva di una partecipazione amorosa dispensata. Alla ricerca di un unico grande senso perduto, la poesia di Betocchi si sarebbe fatta allora davvero prosastica, leopardianamente filosofica e discorsiva, interrogante.
Dal sentire del cuore al ragionare della mente, dall’esuberanza delle rime ai ritmi meno sonanti della meditazione e del silenzio; e tuttavia con acquisti artistici strepitosi, più che mai duttili e originali, in una riconfermata appartenenza creaturale ad una stessa vicenda planetaria di vita e di morte resasi solo più povera: immiseritasi fino alla perdita di ogni risolutivo motivo di certezza o umano vantaggio, forte per via di debolezza, semmai, di una residua, solidale e drammatica «fede, che non è fede» tesa all’anonimato, integralmente spoliata e incircoscritta.

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